In
ricordo del dott. Antonio Lepore
Caro Antonio, mo’ ti scrivo.
Ho incontrato per la prima volta il dott. Antonio
Lepore una mattina di maggio quando, giovane studente del secondo anno
di medicina, mi azzardai con una collega, ad andare nel vecchio Ospedale
Civile per chiedere al mai dimenticato prof. Gobbi se potevamo fare
presenza ed esperienza.
Quello acconsentì e ci presentò al suo giovane
assistente medico: il dottor Lepore. Grazie alla pazienza e
disponibilità di Antonio mi trovai subito a mio agio.
Durante le massacranti sedute al letto dei malati
nelle grandi sale, dove il prof. Gobbi alternava le visite con amabili
ma terrificanti lezioni private, il suo aiuto fu indispensabile. Di
nascosto dal professore, lui tutto rosso in viso, ci suggeriva opportune
risposte onde evitare inevitabili figuracce.
Fino a quel giorno che, te lo ricordi, facemmo ridere
per mesi il professore. Mi aveva chiesto qualcosa su delle stramaledette
cellule ed io, ancora a digiuno di Patologia Generale mi stavo
arrampicando sugli specchi. Poi tu mi suggeristi quella parola:
eucarioti. Siccome ero incastrato tra il letto e il professore lessi
malamente le tue labbra ed uscii con quella risposta che piegò in due il
prof. Gobbi. Dissi che erano cellule che avevano un nome che ricorda i
malati di mente e conclusi a bassa voce con... idioti.
Fosti sempre tu poi a consigliarmi di continuare nella
mia passione per la chirurgia, vedendo che per la medicina interna non
ero proprio tagliato.
Ma il tempo scorre e le persone si attardano in altri
sentieri, finchè un giorno, un bel giorno, ci ritrovammo insieme nel
gruppo di medici di Quei del martì. Ogni volta che ci
incontravamo era tutto un fiorire di citazioni latine. Cominciavo io e
tu seguivi a ruota e tra il mio latino-trentino e il tuo latino-pugliese
era tutta una cacofonia che avrebbe fatto ridere per secoli l’esimio
prof. Tait.
Ovviamente concludevamo spesso, alla faccia delle
continue correzioni del dott. Senter, con un bel: “Tanto va la gatta al
lardo...”.
Non ci scambiavamo solo facezie ed aneddoti vari.
Spesso le discussioni vertevano su Seneca e sulla Brevità della vita.
Pur riflettendo seriamente, qualche volta concludevamo, a vicenda, con
quel: “Vai avanti tu che mi viene da ridere”, che ricordando la tua
interpretazione di Ugo Tognazzi, ancora mi fa sorridere.
Ora che sei andato avanti, non avere paura. Come tutti
ben sanno il Padre Eterno non è Equitalia. Egli non s’interessa della
fiscalizzazione degli oneri sociali. Egli, come riporta Luca,
l’Evangelista, consiglia di procurarsi amici perchè ci accolgano nelle
dimore eterne. Per cui, dovresti già aver visto, là, in fondo alla sala
eterna, quella signora che ti viene incontro. Forse non te la ricordi,
perchè a quel tempo erano già diversi anni che lavoravi ma, per me, era
il primo contatto con la sofferenza. Comunque ci penso io a rinfrescarti
la memoria. È Rosina, quella povera paziente che stava nella stanzetta a
sinistra dopo la sala di medicazione. Era quella che soffriva della CID;
la coagulazione intravascolare disseminata. Quella gravissima malattia
che ostruisce i vasi con i trombi, consuma i fattori della coagulazione
finendo col provocare estesi fenomeni emorragici. Come vedi, caro
Antonio, la lezione la ricordo ancora. E Rosina si ricorda di te, perchè
eri l’unico che si sedeva al suo letto. Le sue grida continue di dolore
quasi cessavano al vederti.
Ecco, è lei che ti accoglie. Tutto il resto, sarà solo
una formalità.
Ah!... scusami, dimenticavo, già che ci sei salutaci
Gian Pio Adami, Paolo Setti e Guido Fait.
I tuoi amici di Quei del marti.